domenica 7 ottobre 2012

Chi ti credi di essere?

Ho riflettuto sul bisogno del gentil sesso di sentirsi speciale. Sono giunto alla conclusione che non si tratta di una condizione posta o di un attributo richiesto nel corteggiamento ma è  invece parte dell’essere donna. Tutte le donne si sentono, infatti,  speciali e non è tollerata l’eventuale non riconoscenza di questo stato d’essere. L’accettazione aprioristica dell’unicità e straordinarietà della propria persona deve essere un fatto scontato, da qui la conseguente aspettativa che qualsivoglia relazione deve partire da questo presupposto. In fase iniziale certo non mancano di sottolinearlo. Il livello di autoreferenzialità lo si può facilmente desumere dal tono comparativo dei propri racconti e il ricco utilizzo del pronome personale “io” o del pronome indefinito “nessuno” il cui abuso  ho sempre guardato con sospetto. Nessuno infatti ha passato quello che ha passato lei e nessuno la capisce veramente. Tra le mie amiche sono io che so davvero cosa vuol dire… Lungi da me il tentativo di comprendere o di spiegare. Me ne sono fatto da tempo una ragione e lascio ai giovani l’affascinante compito di indagare il mistero del mondo femminile. Mi limito ad osservare costanti di comportamento ovvero “pattern” come si direbbe in gergo sociologico. Dunque spesso mi è capitato di trovarmi ad ascoltare storie di vita che oscillano tra il mero vittimismo di essere più sfortunato al mondo, a nocchiero di un veliero proiettato verso il mare del duemila…  Inevitabilmente l’autoreferenzialità, che rasenta l’egocentrismo, innesca inevitabili conseguenze. In primis un livello altissimo di competizione con le altre donne, e scusate, su  questo punto da tempo noi uomini abbiamo compreso l’importanza del gioco di squadra (Nash docet), ma anche un atteggiamento iperselettivo nei confronti degli uomini, esasperando atavici comportamenti di scuola  antropologica sulla scelta del maschio,  che si traduce in un mero egoistico atteggiamento di esclusività: l’utero è mio e decido io.  Certo, in un mondo ideale vigerebbe lo schema del chiedete e vi sarà dato ma date le premesse bisogna stare al gioco ed è dovuta qualche moina. Non ci vuole poi così tanto a dare importanza e a rendere speciale qualcuno, basta qualche non mi dire, ma davvero, ti capisco e un paio di sei davvero unica ed il gioco è fatto. Poi tra tante capita di incontrare dei veri casi patologici dove l’essere speciale assume connotati epici invadendo tutti gli aspetti della propria vita. In quei casi allora non basta considerare se stessi speciali ma attraverso un effetto re mida diventa speciale tutto ciò con cui si ha a che fare. Si inizia a dare un nome a tutte le cose e tutto deve avere a che fare con i massimi sistemi. La mia vita è il soggetto ideale per un film esistenzialista, la mia relazione sembra un romanzo d’altri tempi e perfino una spiaggia deserta e sperduta diventa un momento pregno di emozioni da essere vissuto intensamente. Così aspetti e ti trovi a fumare cento sigarette mentre lei deve a tutti i costi farsi una passeggiata in solitaria per contare fino all’ultimo granello di sabbia meditando sul senso della vita e dell’esistenza, tralasciando però il senso di ciò che si sta facendo in quel preciso istante. Mi sorprende sempre questa capacità di volersi a tutti i costi complicare la vita perdendosi nella ricerca del dare un nome alle cose anziché alleggerirsi l’esistenza rendendosi conto che a volte basta vivere. Chi più si reputa speciale più si lamenta di non trovare il fidanzato all’altezza. Bhè, mi piacerebbe rammentare a chi non fa altro che dirsi unica che, mia cara, fatte alcune eccezioni tipo Hitler e Einstein,  facciamo tutti parte del grande medione del genere umano. Come qualcuno ha detto meglio di me l’impresa eccezionale è essere normale. Telefonami quando avrai preso coscienza di questa semplice e universale verità, perché a me di pensieri bastano i miei e non ho bisogno di dare un significato ad ogni cosa che accade, ne tantomeno di qualcuno che si aspetta che lo faccia.   

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